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Il perchè di questo blog
Navigando su Internet, nell'era dei Social Network, mi sono imbattuto più e più volte in una citazione di una frase famosa o di un aforisma. Mi sono sempre chiesto cosa ci sia dietro: da questa domanda, nasce questo blog.

martedì 24 marzo 2015

Sic transit gloria mundi

Ritorno con una frase latina, che resa in italiano fa più o meno "Così passa la gloria del mondo".

Questa è una frase che, secondo il rito tradizionale, il cerimoniere ripete tre volte davanti al pontefice neoeletto, mentre fa bruciare un batuffolo di stoppa in cima a una canna d'argento. Oggi questo rito è abolito.

La frase (anche nella forma abbreviata sic transit) resta nel linguaggio comune e viene pronunciata, in occasioni meno solenni, e talvolta in tono scherzoso, con riferimento alla caducità delle cose umane.

Una forma diversa, ma che nel linguaggio odierno ha più o meno il medesimo significato, sta nella locuzione Vanitas vanitatum et omnia vanitas (in italiano, "vanità delle vanità, tutto è vanità"), tratta dalla versione in latino del Qohelet (o Ecclesiaste, 1, 2; 12, 8), un libro sapienziale dell'Antico Testamento. Ma questa, è un'altra storia...

mercoledì 18 marzo 2015

L’ultimo passo della ragione è riconoscere che c’è un’infinità di cose che la superano

Ancora una volta, un aforisma di Blaise Pascal (Clermont-Ferrand, 19 giugno 1623 – Parigi, 19 agosto 1662). Stavolta, la "colpa" di questo mio scritto è da attribuire ad un mio compaesano, il Prof. Giuseppe (detto Pino) Barbàra, che include la frase famosa di oggi in un articolo del suo blog, oltre che in un post sul suo profilo Facebook.

Un articolo molto interessante, quello del Prof. Barbàra, di cui ne consiglio davvero la lettura.

Ma ritorniamo al nostro buon Pascal, di cui già avevamo commentato l'aforisma "Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce". L'aforisma di oggi insiste nel solco della tesi pascaliana delle "ragioni del cuore", innestata sulla dottrina agostiniana che riporta la verità all’interno dell'anima umana, in interiore nomine - in questo senso la "reminiscenza" platonica si sarebbe “interiorizzata” -, valorizzando il ruolo dell'intuizione ed addirittura prefigurando, con il suo "Se mi inganno, sono" [De civ. Dei, XI, 26], l'argomento del cogito cartesiano.

Con le parole di oggi di Pascal, è chiaro come il filosofo francese indichi che il Credere non sottintenda la rinuncia alla ragione. L'ammissione "agostiniana" di incapacità di comprendere "il tutto", che Pascal fa evidentemente sua, non corrisponde però ad una totale rinuncia, bensì alla presa di coscienza della continua ed incessante necessità di cercare e ricercare per "scoprire", "svelare", comprendere la Verità sull'uomo e su Dio!

Questo atteggiamento di umiltà ed al tempo stesso di insaziabilità di conoscenza è, secondo Pascal, la condizione positiva sia per la ricerca fisico-scientifica che per quella filosofica e teologica. Ecco che, quindi, la Fede dà il giusto indirizzo alla ragione, mentre la ragione consolida la fede permettendo di traslare da sentimento a presa di coscienza e libero assenso alla rivelazione, la quale però rimane pur sempre non pienamente comprensibile in quanto l’Eterno, il Totalmente Altro, trascende il nostro stesso essere limitato (nel tempo, nello spazio, nell'intelletto).

giovedì 12 marzo 2015

Semel in anno licet insanire

Busto di Seneca (Antikensammlung di Berlino,
da un'erma di Seneca e Socrate)
Riprendo, dopo alcuni giorni di interruzione, con un aforisma attribuito a Seneca (Corduba, 4 a.C. – Roma, 65 d.C.): "semel in anno licet insanire".

La locuzione latina, che in italiano può essere resa con "una volta all'anno è lecito impazzire", viene riportata da Sant'Agostino nel suo De civitate Dei (6, 10) (tolerabile est semel anno insanire). Ivi, il santo d'Ippona ci conserva e riporta proprio un passo del dialogo De superstitione di Seneca.
Sempre all'epoca di Roma antica, anche Orazio la fece propria nella sostanza cambiandone la forma: "Dulce est desipere in loco" (trad. è cosa dolce ammattire a tempo opportuno, dai Carm., IV, 13, 28).

La frase di Seneca diviene proverbiale nel Medioevo, allorquando si iniziò a legarla ai riti carnascialeschi precedenti la Quaresima, col senso giustificatorio secondo cui, in un ben definito periodo di ogni anno, tutti sono autorizzati a non rispettare le convenzioni religiose e sociali, a comportarsi quasi come se fossero altre persone.

Oggi, la locuzione viene spesso citata per scusare follie passeggere, e generalmente innocue, proprie o altrui.

mercoledì 4 marzo 2015

Quanto più a fondo vi scava il dolore, tanta più gioia si potrà contenere.

Kahlil Gibran, aprile 1913.
Foto di Fred Holland Day.
Nessun commento, oggi. Nessuna storia da raccontare. Solo la poesia di Khalil Gibran (Bsharri, 6 dicembre 1883 – New York, 10 aprile 1931) poeta, pittore e filosofo libanese.

Allora una donna disse:
Parlaci della Gioia e del Dolore

E lui rispose:

La vostra gioia è il vostro dolore senza maschera.

E il pozzo da cui scaturisce il vostro riso, è stato sovente colmo di lacrime.

E come può essere altrimenti?

Quanto più a fondo vi scava il dolore, tanta più gioia si potrà contenere.
La coppa che contiene il vostro vino
non è forse la stessa bruciata nel forno del vasaio?

E il liuto che rasserena il vostro spirito
non è forse lo stesso legno scavato dal coltello?

Quando siete felice, guardate nel fondo del vostro cuore e scoprirete che è proprio ciò che vi ha dato dolore a darvi ora gioia.

E quando siete tristi, guardate ancora nel vostro cuore e saprete di piangere per ciò che ieri è stato il vostro godimento.

Alcuni di voi dicono: «La gioia è più grande del dolore», e altri dicono: «No, è più grande il dolore».

Ma io vi dico che sono inseparabili.

Giungono insieme, e se l’una siede con voi alla vostra mensa, ricordate che l’altro è addormentato nel vostro letto.

In verità voi siete bilance che oscillano tra il dolore e la gioia.

Soltanto quando siete vuoti, siete equilibrati e saldi.

Come quando il tesoriere vi solleva per pesare oro e argento, così la vostra gioia e il vostro dolore dovranno sollevarsi oppure ricadere.