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Il perchè di questo blog
Navigando su Internet, nell'era dei Social Network, mi sono imbattuto più e più volte in una citazione di una frase famosa o di un aforisma. Mi sono sempre chiesto cosa ci sia dietro: da questa domanda, nasce questo blog.

martedì 7 aprile 2015

Vanità delle vanità, tutto è vanità

Vanitas, dipinto di Léon Perrault
Ai tempi di "Sic transit gloria mundi" avevo accennato a questo ulteriore aforisma latino.

La sua versione originale è Vanitas vanitatum et omnia vanitas (in italiano, "vanità delle vanità, tutto è vanità"), ed è presa dalla traduzione latina del Qohelet (o Ecclesiaste, 1, 2; 12, 8), un libro sapienziale dell'Antico Testamento.

La costruzione ridondante «vanitas vanitatum» è, in realtà, un calco linguistico dall'ebraico havel havalim, con valore superlativo.
Con questa locuzione si apre e si chiude il lungo discorso di Qohelet, che occupa i dodici capitoli del libro omonimo. Qohelet, o Ecclesiaste, uomo saggio e maestro, dopo aver esplorato ogni aspetto della vita materiale, giunge alla conclusione (già preannunciata all'inizio del testo) che tutto è vanità. Il che non deve impedire all'uomo di riconoscere in Dio il creatore e di osservare i suoi comandamenti, come conclude il breve paragrafo finale ad opera di un commentatore posteriore.

Nei secoli, però, non tutti i lettori hanno condiviso le conclusioni concilianti del commentatore, e il Qohelet è diventato il simbolo di una più radicale negazione del valore di ogni cosa. A reinterpretare l'Ecclesiaste in senso "nichilista" è, per esempio, Giacomo Leopardi, che nel canto A se stesso traduce il Vanitas vanitatum con L'infinita vanità del tutto.

L'Imitazione di Cristo, un testo letterario cattolico particolarmente noto e pubblicato per la prima volta nel 1418, riprende nella sua introduzione questa massima biblica, aggiungendovi la frase: «praeter amare Deum et illi soli servire» ("eccetto amare Dio e servire Lui solo").

Questo tema è presente anche nell'Orlando Furioso. Infatti nel canto 34 l'Ariosto racconta l'avventura del paladino Astolfo che con il suo Ippogrifo ripete le tappe del viaggio iniziatico: scende negli inferi, ne esce e arriva fin sulla Luna accompagnato da San Giovanni Evangelista, per recuperare il senno del cugino Orlando, pazzo per amore di Angelica. La luna è lo specchio della Terra, infatti qui c'è tutto quello che sul nostro pianeta si è perso o per colpa del tempo o per Fortuna (sorte): "ciò che in somma qua giù perdesti mai, là su salendo ritrovar potrai" (XXXIV, 70.75). Vi sono la fama, le preghiere e i voti a Dio, le lacrime e i sospiri degli amanti, il tempo perso al gioco, l'ozio e i progetti vani che non vengono mai messi in pratica, i vani desideri, le adulazioni, i versi composti in lode dei signori, la stessa donazione di Costantino. Solo pazzia non si trova sulla Luna, perché è tutta sulla Terra, gli uomini son tutti pazzi e non vi è nessuno di totalmente savio. Tutto ciò rappresentano i vani desideri degli uomini e soprattutto di quelli di corte che Ariosto conosce così bene. Desideri vani in cui gli uomini si nascondono ma che non trovano mai e come Orlando poi diventano pazzi, perché non riescono a ottenerli dato che sono finiti proprio lassù, sulla Luna.

mercoledì 1 aprile 2015

La speranza è l'ultima a morire

L'Espérance, scultura di Jacques Du Brœucq.
Nell'iconografia cristiana, la speranza è
simboleggiata dall'àncora.
Quante volte abbiamo sentito o ripetuto questo detto popolare?

La sua origine non è ben nota. Sappiamo che i nostri antenati latini solevano affermare che "la speranza è l'ultima dea". Ed è forse da qui che l'aforisma odierno prende spunto.

I latini usavano la frase "Spes ultima dea" per significare che la speranza è l'ultima dea che siede al capezzale del morente, con riferimento al mito greco della dea Speranza che resta tra gli uomini a consolarli, anche quando tutti gli altri dèi abbandonano la terra per l'Olimpo. Viene ripresa da Foscolo nei Sepolcri: «[...] Anche la speme, / ultima dea, fugge i sepolcri».

Secondo altre fonti, l'aforisma fa riferimento al mito greco del vaso di Pandora. Esso, secondo la mitologia, contiene tutti i mali del mondo. Venne donato da Zeus a Pandora, con la precisa indicazione che non doveva essere aperto. Pandora, però, a causa della sua smodata curiosità, disubbidì alle indicazioni del padre degli dei dell'Olimpo. Liberò, così, tutti i mali del mondo. Sul fondo del vaso rimase soltanto la speranza (Elpis), che non fece in tempo ad uscire prima che il vaso venisse richiuso. Dopo l'apertura del vaso il mondo divenne un luogo desolato ed inospitale finché Pandora lo aprì nuovamente per far uscire anche l'ultima, la speranza, che sarà anche poi l'ultima a lasciare gli uomini.

I cugini francesi d'oltralpe rendono l'aforisma come "on vive que avec l'espoir" (più o meno "non si vive se non con la speranza") o "L'espoir fait vivre" ("la speranza fa vivere"): forse rendono meglio il senso "speranzoso" dell'aforisma.