Intro

Il perchè di questo blog
Navigando su Internet, nell'era dei Social Network, mi sono imbattuto più e più volte in una citazione di una frase famosa o di un aforisma. Mi sono sempre chiesto cosa ci sia dietro: da questa domanda, nasce questo blog.

venerdì 27 febbraio 2015

In bocca al lupo

Cuccioli di luppo bianco
Vi sono davvero molte interpretazioni del termine "in bocca al lupo". Che esso sia usato in senso scaramantico per dire "buona fortuna" è ben noto ma le sue origini sono più incerte.

Una prima interpretazione vuole che la frase derivi dal linguaggio di pastori e allevatori per i quali il lupo era temuto più di tutti gli altri animali a causa della sua voracità per il bestiame del quale essi si occupavano.

Un'altra spiegazione, invece, deriva dai cacciatori che sopprimevano i lupi poiché ritenuti pericolosi per gli umani. In questo caso dire "in bocca al lupo" significava augurare "buona caccia".

Sempre riguardante la caccia sarebbe la spiegazione dell'espressione secondo la quale chi andava a cacciare il lupo doveva avvicinarsi e quindi metaforicamente "mettersi nella bocca del lupo". A questo augurio avrebbe senso rispondere "crepi il lupo" poiché per affrontarlo ci voleva molto coraggio e fortuna.

Altri ancora pensano che il detto derivi dal greco per assonanza ovvero: "prendi la retta via" e rispondere "la prenderò".

Un'ennesima interpretazione prende spunto dalla storia dell'origine di Roma: Romolo e Remo vennero salvati dalla lupa. Così, se qualcuno rivolge l'espressione all'altro, si augura fortuna. Anche se in questo caso la risposta "crepi" o "crepi il lupo" non avrebbe senso poiché l'animale sarebbe considerato "la salvezza".

Una spiegazione del termine ci è data, invece, dalla navigazione dove "la bocca del lupo" era la "lavagna" sulla quale si registravano i nomi degli uomini e delle merci portate a casa e quindi l'espressione avrebbe avuto il senso di una "buona navigazione".

mercoledì 25 febbraio 2015

Ai posteri l'ardua sentenza

Ritratto di Alessandro Manzoni,
Francesco Hayez (1841),
Pinacoteca di Brera, Milano.
La citazione di oggi la traggo dalla famose ode "Il cinque maggio" che Alessandro Manzoni (Milano, 7 marzo 1785 – Milano, 22 maggio 1873) scrisse alla notizia della morte di Napoleone Bonaparte in quel dell'Isola di Sant'Elena.

Contenuti ai versi 31-32 dell'ode, la frase è divenuta d'uso comune per indicare come alle generazioni future (i posteri) toccherà giudicare (l'ardua sentenza), nel bene o nel male, l'agire odierno.

Combattuto fra il rifiuto dell'aspetto dittatoriale napoleonico e la visione anti-asburgica di un'Italia unita sotto il vessillo del Bonaparte, Manzoni non prese mai apertamente posizione pro o contro Napoleone quando era in vita.
Nella sua ode, anche dopo la morte dell’imperatore sembra astenersi dal giudicarlo, e lo fa proprio attraverso il celebre verso ivi riportato. In realtà, nell'ode traspare il favore di Manzoni anche se il verso – diventato modo di dire – ha oggi un valore dubitativo.

Fu vera gloria? Ai posteri31
L’ardua sentenza: nui32
Chiniam la fronte al Massimo33
Fattor, che volle in lui34
Del creator suo spirito35
Più vasta orma stampar.36


Commento personale

Ovviamente, come per ogni cosa riportata sulla bocca di tutti, non sempre l'aforisma viene correttamente citato. Un esempio lo trovate su Yahoo Answers, dove la storpiatura genera "Ai postumi l'ardua sentenza"...
Poco male, se pensate che io stesso, con i miei orecchi, ho sentito: "Ai poster, larga sentenza"...

Ad maiora.

lunedì 23 febbraio 2015

'Nci sunnu cchjiù jorna ca gruppa i satizzi

Oggi colgo il consiglio dell'amico Franco Maiorana e faccio menzione, più che di un aforisma, di un detto tipico della mia terra, la Calabria.

'Nci sunnu cchjiù jorna ca gruppa i satizzi, tradotto in italiano: "Ci sono più giorni che salsicce". Nelle sue diverse varianti, è un detto comune a tanta parte del territorio calabrese, ed il suo uso si estende fino in Sicilia.

Non escludo un suo utilizzo, in una qualche forma, anche in territorio campano. La mia supposizione deriva da una constatazione: la Calabria non è una Regione dalla radice dialettale univoca.

Escludendo le minoranze grecofone e arbresh, la presenza dialettale in Calabria riprende l'antica suddivisione in Calabria Citeriore (o Calabria latina, corrispondente più o meno alla provincia di Cosenza), e Calabria Ulteriore, o calabria greca.

Stemma della Calabria Citeriore

Nella prima, i dialetti parlati sono simili agli altri vernacoli meridionali derivanti dalla lingua napoletana. Il calabrese parlato nella parte Ulteriore, invece, è considerato una variante della lingua siciliana: è, infatti, assente e sconosciuto il passato remoto nella coniugazione vernacolare "citeriore" dei verbi.
Ciò, probabilmente, è storicamente dovuto alle zone di influenza storico-economica, soprattutto durante il susseguirsi del Regno di Sicilia, poi del Regno di Napoli ed, infine, del Regno delle Due Sicilie. I centri d'attrazione, in questi periodi, furono prevalentemente Palermo e Napoli.
I dialetti della Calabria Ulteriore manifestano, secondo l'opinione del filologo e linguista Gerhard Rohlfs, fenomeni riflessi di una lunga bilinguità greco-latina.

Stemma della Calabria Ulteriore

Tornando all'aforisma di oggi, esso è un modo di rendere in vernacolo il modo di dire italiano: "la vendetta è un piatto che va consumato freddo".
Perchè far riferimento alle salsicce? Per due fondamentali motivi:
  1. il primo, perchè in Calabria e Sicilia si è soliti preparare le salsicce in catenelle (i cosiddetti "gruppa", i nodi formati dallo spago che lega gli elementi della catenella) davvero molto lunghe;
  2. per la nota abbondanza di varietà con cui questo insaccato viene preparato, nonchè per il notevole assortimento di portate su di esso basate...

venerdì 20 febbraio 2015

Quella notte seppi che il mondo era votato alla sofferenza

È di Leó Szilárd (Budapest, 11 Febbraio 1898 – La Jolla, 30 Maggio 1964) la citazione di oggi.

Fisico, inventore e scrittore ungherese naturalizzato statunitense, scappò dalla sua patria natìa per sfuggire al regime nazista, essendo nato da famiglia ebraica.
A Budapest, durante il weekend del 1° aprile 1933, Julius Streicher capeggiò un boicottaggio nazionale delle imprese ebraiche e gli ebrei furono picchiati per strada. Come ebbe a narrare lo stesso Szilárd: «Presi un treno da Berlino a Vienna in una data vicina a quel 1° aprile. Era vuoto. Il giorno dopo quello stesso treno era sovraffollato; venne fermato alla frontiera, la gente dovette scendere e ognuno fu interrogato dai nazisti. E tanto basta per dimostrare che se si vuole riuscire in questo mondo non bisogna essere molto più intelligenti degli altri; bisogna solo essere in anticipo di un giorno».

Lui lo fu, in anticipo. Fu anche un ottimo inventore. Ad esempio, in coppia con Albert Einstein, escogitò un metodo elettromagnetico di pompaggio per un refrigerante metallizzato che non richiedesse parti mobili (e quindi valvole che potessero perdere), a parte il refrigerante stesso. Questo dopo che i due ebbero letto un triste articolo «di un giornale di Berlino - come ebbe a narrare un allievo statunitense di Szilárd - in cui si riferiva che un'intera famiglia, con diversi figli piccoli, era stata trovata asfissiata nel proprio appartamento per avere respirato le esalazioni tossiche della sostanza usata come refrigerante nel suo primitivo frigorifero, esalazioni sfuggite da una valvola della pompa che perdeva».

La frase celebre è relativa al primo esperimento sulla fissione nucleare, operata in un piccolo reattore da laboratorio costruito da Enrico Fermi. Sì, perchè il fisico Szilárd, rifugiatosi negli Stati Uniti, fu uno degli scienziati di punta del cosiddetto "Progetto Manatthan", che notoriamente porterà alla costruzione della bomba atomica.

Dopo quell'esperimento pienamente riuscito, al lampo verde di un semaforo incrociato mentre passeggiava per tornare a casa, a Szilárd si spalancò innanzi il futuro. Come egli stesso ebbe a dire a proposito: «we turned the switch, we saw the flashes, we watched them for about ten minutes — and then we switched everything off and went home. That night I knew the world was headed for sorrow...».



Commento personale

Intelligenza sopraffina, quella di Szilárd. Triste epoca, quella in cui si trovò ad operare.
E dire che, come diceva di lui il biologo francese Jacques Monod, «la sua ambizione più profonda, ancora più radicata dell'impegno scientifico, era quella di salvare, in un modo o nell'altro, il mondo».

giovedì 19 febbraio 2015

Tutti facevano cioccolato solido, io lo feci cremoso ed è nata la Nutella.

L'aforisma di oggi lo dedico a Michele Ferrero (Dogliani, 26 Aprile 1925 – Montecarlo, 14 Febbraio 2015).
Con lui, se ne va un pezzo della nostra vita, con la Nutella che ha accompagnato (ed accompagnerà ancora, speriamo tutti) le colazioni e le merende di almeno un paio di generazioni, e non solo in Italia.

Suo padre inventò quella crema alla nocciola che poi Michele chiamerà "Nutella".
A proposito delle prime volte in cui provò a commercializzare il prodotto, l'imprenditore italiano amava narrare:
«La prima volta che entrai in una panetteria-pasticceria per vendere la crema alle nocciole che faceva mio padre, il negoziante mi chiese brusco: "Cosa vuole?". Non ebbi il coraggio di offrirgli il prodotto. Comprai due biove di pane e uscii. Andò così in altri due negozi. Nel quarto lasciai la merce in conto vendita. Tornai il giorno dopo: l'avevano venduta tutta».

Ho faticato ad effettuare una cernita fra le affermazioni di questo uomo rimasto semplice e che amava il proprio lavoro, la propria azienda, ma soprattutto i propri dipendenti. É per questo che ho deciso di riportare tutte le riflessioni famose di Michele Ferrero. Leggetele: vi troverete racchiuse davvero l'essenza dell'essere umano.

E a te, Michele, che amavi il tuo dialetto del tuo profondo Nord, permettimi di scriverti un augurio in un dialetto del mio profondo Sud: "a bon locu và".

La mia unica preoccupazione è che l'azienda sia sempre più solida e forte per garantire a tutti coloro che ci lavorano un posto sicuro.

Il segreto del successo? Pensare diverso dagli altri e non tradire il cliente.

Tutti facevano cioccolato solido, io lo feci cremoso ed è nata la Nutella.

Sa perché ho potuto fare tutto questo? Per il fatto di essere una famiglia e di non essere quotati in Borsa: questo ha permesso di crescere con serenità, di avere piani di lungo periodo, di saper aspettare e non farsi prendere dalla frenesia dei su e giù quotidiani.

Tutto quello che ho fatto lo devo alla Madonna, a Maria, mi sono sempre messo nelle sue mani e lei devo ringraziare. La prego ogni mattina e questo mi dà una grande forza.

Lavoro per le Valerie, le donne che decidono. Se non ti comprano loro sei finito.

La Valeria è la mamma che fa la spesa, la nonna, la zia, è il consumatore che decide cosa si compra ogni giorno.

La Valeria è sacra, devi studiarla a fondo, con attenzione e non improvvisare mai. Bisogna avere fiuto ma anche fare tante ricerche motivazionali.

Quando dicono “Michele è un genio”, rispondo facendo finta di aver capito altro: “Sì è vero di secondo nome faccio Eugenio, la mia mamma mi chiamò Michele Eugenio.

Pensi che ancora oggi noi ritiriamo tutto il nostro prodotto di cioccolato all’inizio dell’estate, per evitare che si sciolga, per evitare che la Valeria resti delusa e trovi qualcosa che non è all’altezza.

L’Estathè per dieci anni non è esploso, ma io non mi sono scoraggiato, perché ero convinto che ci voleva tempo ma che l’intuizione era giusta e che la Valeria non sapeva ancora che era quello di cui aveva bisogno. Ma poi se ne è resa conto ed è stato un grande successo.

mercoledì 18 febbraio 2015

Domine, quo vadis?

"Domine, quo vadis?" (77x56 cm), olio su tavola
realizzato nel 1601 dal pittore italiano
Annibale Carracci ed attualmente conservato
presso la National Gallery di Londra
Nel 64 D.C., l'allora imperatore di Roma Nerone attua il suo progetto di rifacimento architettonico della città eterna. Per far questo, urge demolire la vecchia, sudicia ed "ingombrante" struttura urbanistica. Nerone ha, così, l'idea di appiccare in più punti strategici della città degli incendi. Il legno e la paglia con cui venivano allora costruite gli alloggi e i locali civili, soprattutto dei meno abbienti, fanno il resto.

In pochi minuti, gran parte di Roma brucia; su quelle fiamme, la tradizione storica ci narra di Nerone che canta suonando il suo strumento preferito, la lira.
Di quell'incendio, l'imperatore accusa subito i cristiani, cogliendo in questo modo due piccioni con una fava: coronare il suo sogno architettonico e perseguire i "socialmente pericolosi" cristiani (per la struttura sociale dell'era, ricordo, l'esistenza dei servi era un punto essenziale).

Tra i cristiani in quel momento presenti in Roma vi è anche Pietro, il principe degli Apostoli, che sembra avesse preso dimora lungo la via Appia. La comunità cristiana, allora, temendo per la cattura e l'uccisione della propria guida, ne organizza la fuga proprio attraverso l'Appia, essenziale arteria di comunicazione per l'impero romano ma sufficientemente fuori dal centro abitato da consentire un'agevole allontanamento dei Pietro senza dar nell'occhio.
Allorchè, però, l'apostolo giunge all'incrocio tra la Appia e l'Ardeatina, una persona gli si fa incontro. Folgorato, Pietro riconosce in essa Gesù.

Quo vadis, Domine? (Signore, dove vai?) chiede l'Apostolo
Eo Romam, iterum crucifigi (Vado a Roma, per essere crocifisso nuovamente) gli risponde Gesù.

L'apostolo capisce allora che Gesù, con questo segno, gli chiede di ritornare a Roma e accettare il martirio, e obbedisce. Secondo la tradizione, sarà crocifisso. Chiederà, come "ultimo desiderio" di essere però posto a capo in giù, non sentendosi degno di morire nello stesso modo del Maestro.

Più o meno sul luogo dell'incontro, nei pressi delle catacombe di San Callisto, sorge oggi la chiesetta di Santa Maria in Palmis, meglio nota come chiesa del "Domine quo vadis".

Chiesa di Santa Maria in Palmis, o del "Domine quo vadis", in Roma

Di quell'incontro (di "speciale importanza nella storia di Roma e nella storia della Chiesa", ebbe a dire Papa Giovanni Paolo II nel visitare la chiesa nel 1983) è rimasto un segno visibile ai nostri occhi. Entrando nella chiesetta è possibile subito contemplare, sul pavimento vicino all'ingresso, una pietra con le impronte di due piedi... quelle che Gesù Cristo lasciò nel momento dell'incontro con Pietro.

Oggi, quella esposta nella chiesa del "Domine quo vadis" è una copia; la pietra originaria è ubicata nella vicina basilica di San Sebastiano.

Da notare che, poco più lontano, lungo l'Ardeatina, sorgono le ahimè note "Fosse Ardeatine", dove ebbe luogo il massacro di 335 civili e militari italiani, fucilati a Roma il 24 marzo 1944 dalle truppe di occupazione tedesche come rappresaglia per l'attentato partigiano compiuto da membri dei GAP romani contro truppe germaniche in transito in via Rasella.


Commento personale

Nel film, come nel libro, l'incontro di Pietro con Gesù lungo l'Appia è stato un po' modificato. Gesù non è un viandante che va incontro a Pietro, camminando in direzione di Roma. Il "quo vadis" viene invece narrato come un dialogo fra l'anziano Pietro ed un giovane Nazario, suo discepolo, strumento in quel momento dello Spirito Santo. Notare il nome del giovinetto: Nazario... ovvero, venuto da Nazareth...

martedì 17 febbraio 2015

Il colore è un mezzo di esercitare sull'anima un'influenza diretta. Il colore è un tasto, l'occhio il martelletto che lo colpisce, l'anima lo strumento dalle mille corde

Vasilij Vasil'evič Kandinskij (Mosca, 16 dicembre 1866 del calendario gregoriano – Neuilly-sur-Seine, 13 dicembre 1944), è un notissimo pittore russo, fra i creatori dello stile pittorico della corrente artistica dell' "Astrattismo".

Kandinskij era affascinato dalla forza emotiva della musica, che considerava la migliore forma di comunicazione. In effetti, la musica permette all'ascoltatore una certa libertà d'immaginazione e di interpretazione, non in base al descrittivo ma piuttosto sulle qualità astratte. Kandinskij ha cercato di riprodurre in pittura una sorta di struttura dinamica che ricorda la musica.

I termini "Composizione" e "Improvvisazione", che ha utilizzato per alcune opere astratte, implicano infatti una metafora con la musica. In particolare, "Composizione VI" e "Composizione VII" sono la migliore dimostrazione dell'influenza della musica di Schöenberg. I dipinti sono caratterizzati da un'esplosione svariata di forme e colori, che sembrano emanati da alcune “fonti”, che possono essere interpretate come centri delle composizioni, distinte in sequenza dallo spettatore in una sorta di subliminale processo dinamico guidato. Una delle principali caratteristiche, molto interessanti di questi dipinti di grandi dimensioni, nella nostra prospettiva, è la esplicitamente desiderata uguale distribuzione di interesse e rilevanza per tutto il dipinto e l'assenza di enfasi su qualsiasi area particolare.


Kandinskij, respingendo il sistema gerarchico figurativo, abbraccia le voci polifoniche della musica atonale di Schöenberg. Per Kandinsky la tavolozza stessa è un'opera d'arte: una magia che si materializza poi sulla tela, dando vita ad un'alchimia tra colori che l'artista paragona ad un incontro roboante tra mondi diversi. I colori sono dunque simili a creature viventi e si traducono in un'esperienza spirituale.

Dal punto di vista della teoria dell'informazione, questo concetto si riflette nella distribuzione di probabilità della tavolozza dei colori. Oggettività scientifica e misure quantitative si mostrano essere strumenti essenziali per interpretare il
contenuto dei quadri astratti.

Ad esempio, è ben noto, nella relativa letteratura scientifica, la possibilità di effettuare un'analisi frattale di quadri di Pollock [1]. In tal caso, mentre il significato dei disegni creati dall'artista è controverso, alcuni ricercatori sono stati in grado di descrivere quantitativamente la natura frattale dei dipinti.


In passato, nelle mie attività di ricerca accademica, mi sono occupato anche di questi aspetti: per maggiori approfondimenti, vi rimando ad un mio lavoro dal titolo "Le opere d'arte come reti complesse cognitive", fondato su una originale formulazione del concetto di Complessità Neurale.

[1] Tononi G., Sporns O., Edelman G.M., A measure for brain complexity: relating functional segregation and integration in the nervous system, in Proc. Natl. Acad. Sci., vol. 91, pp. 5033-5037, 1994

lunedì 16 febbraio 2015

Nel futuro ognuno sarà famoso per 15 minuti

Andy Warhol in una foto
di Jack Mitchell
Andrew Warhola Jr. (Pittsburgh, 6 agosto 1928 – New York, 22 febbraio 1987) è stato una delle figure predominanti del movimento della Pop art e tra gli artisti più influenti del XX secolo.

A lui si deve la frase celebre di oggi: "In the future, everyone will be world-famous for 15 minutes".

L'espressione è una parafrasi di una riga del catalogo di una mostra che Warhol tenne al Moderna Museet di Stoccolma dal febbraio al marzo 1968. Nel '79 Warhol che "[...] la mia previsione dal Sessanta finalmente si è avverata". Una frase talmente famosa che è stata anche incisa sulle mura del New York Museum of Modern Art nel 1970.

Eppure, un altro fotografo se ne attesta la paternità. Si tratta di Nat Finkelstein. «Andy un giorno mi disse: "Tutti vogliono diventare famosi". E io gli risposi: "Sì, per circa 15 minuti". Lui ha preso quella frase e l'ha fatta propria». Pur non essendo sicuro al 100% della paternità di Warhol dell'aforisma, il direttore della mostra in Svezia la inserì comunque nel catalogo, attribuendola al famoso pop-artist, perchè, come disse ad un suo assistente: «Anche in caso non l'avesse detta lui, di certo è una frase che avrebbe potuto dire. Quindi inseriamola».

Un adattamento più recente della frase di Warhol è attribuita al filosofo statunitense David Weinberger e sicuramente coglie l'abnorme abnorme dei fenomeni di blogging e social networking online. Essa è "In futuro tutti saranno famosi per quindici persone" o, in alcune interpretazioni, "Con il Web, tutti saranno famosi per quindici persone".


Commento personale:

Nella società odierna, raggiungere velocemente la fama sembra un must cui nessuno vuole sottrarsi. La citazione profetica di Andy Warhol sembra essere divenuta quasi un imperativo.
Soprattutto i Social Network hanno vellicato con successo i punti deboli di giovani e meno giovani, circondadoli di una realtà che celebra il culto del "bello, ricco e famoso" e del "tutto e subito" e proiettandoli in un futuro in cui l'unica cosa che conta è apparire; ma alla fine, fidatevi, non rimarrà che la caduca manciata di quegli effimeri 15 minuti di celebrità...

domenica 15 febbraio 2015

A Fra', che te serve?

Chi ha vissuto la Prima Repubblica, non può non ricordare questa frase. Il Fra' è Franco Evangelisti, braccio destro di Giulio Andreotti all'epoca della Democrazia Cristiana.

Erano gli albori degli anni '80, nel dettaglio il 28 Febbraio del 1980.
Franco Evangelisti, già sindaco di Alatri, parlamentare di lungo corso, dirigente nazionale DC, appartenente alla "corrente andreottiana" (la ricordate, nel film "Il Divo"?) ed al tempo ministro della Marina Mercantile nel Governo Cossiga I, si trova a rilasciare un'intervista all'allora giornalista de La Repubblica, Paolo Guzzanti (si, lui, il padre di Corrado, Sabina e Caterina).

Qui, racconta di come avesse ricevuto finanziamenti illeciti da Gaetano Caltagirone, famosissimo imprenditore edile romano ("palazzinaro", si direbbe nella capitale) nonchè cugino di Francesco Gaetano Caltagirone, suocero di Pier Ferdinando Casini.

Un rapporto particolare, evidentemente, quello fra Evangelisti e Caltagirone, perchè, ad ogni telefonata, l'imprenditore non rispondeva mica con un "ciao" o un "buongiorno", bensì con il famoso "A Fra', che te serve?". Il perchè di quello strano saluto è abbastanza chiaro...

Evangelisti fu un precursore. Per la prima volta nella storia repubblicana, si spalancava la scena su finanziamenti illeciti ai partiti. Un po' l'antipasto, dieci e più anni prima, della arcinota Tangentopoli.

Le indagini erano partite nel Settembre del 1977. Si appurò che imprenditori e uomini politici erano coinvolti in finanziamenti illeciti alla Democrazia Cristiana attraverso l'uso di fondi dell’Istituto di credito delle Casse di risparmio italiane (Italcasse). All'avvio delle attività di approfondimento da parte della magistratura seguirono quasi subito le dimissioni dell'allora direttore dell'Italcasse, il democristiano Giuseppe Arcaini. Vennero arrestati anche i banchieri Edoardo Calleri di Sala e Giordano Dell’Amore.

Francesco e Gaetano Caltagirone, coinvolti nel sistema, furono destinatari di un mandato di cattura per bancarotta fraudolenta un mese prima, più o meno, dell'intervista di Evangelisti a La Repubblica.

Poco prima della sua morte, Evangelisti riferì alla magistratura di un presunto incontro segreto avvenuto fra Giulio Andreotti e il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa durante il quale i due avrebbero parlato del memoriale completo di Aldo Moro scritto da quest'ultimo durante la sua prigionia ad opera della Brigate Rosse, e contenente rivelazioni altamente compromettenti per Andreotti.


Commento personale

I rapporti fra Evangelisti ed Andreotti, fino ad allora davvero strettissimi, si raffreddarono incredibilmente (c'era da aspettarselo, che ne dite?). Quando, però, nel 1993 Evangelisti venne ricoverato alla Clinica Quisisana per l'emorragia cerebrale che poi lo stroncò, Andreotti non si fece attendere. Scrisse Concita de Gregorio, in quei mesi, sulle pagine de La Repubblica (ancora?!?):

«Giovedì scorso però, appena si è saputo del ricovero, Andreotti ha varcato il portone della Quisisana, la clinica romana di Ciarrapico dove Evangelisti è entrato già in coma. È arrivato solo, è salito al terzo piano, dopo pochi minuti se ne è andato in silenzio. Per una settimana ha mandato il suo autista a chiedere notizie. Ieri è tornato un attimo, prima che arrivassero i parenti e i giornalisti. “È rimasto pochissimo, il tempo di entrare e scappare”, racconta un'infermiera. Uno dopo l'altro spariscono gli uomini dell'andreottismo, resta solo Andreotti».

Quando si dice: l'amicizia!

sabato 14 febbraio 2015

Un bacio, insomma, che cos'è mai un bacio? Un apostrofo rosa fra le parole "t'amo".

Una scena tratta da una trasposizione
cinematografica della commedia, con
Gérard Depardieu nei panni di Cirano
e Anne Brochet in quelli di Rossana
Oggi è San Valentino, festa per eccellenza degli innamorati.

Visto che un paio di "citazioni romantiche" me le sono giocate nei giorni scorsi, non mi resta che andare sul sicuro, con l'aforisma forse più citato al mondo in tema di amore e romanticismo.

Durante l'Atto terzo, Scena Decima della propria commedia teatrale Cyrano de Bergerac, Edmond Rostand, drammaturgo e poeta francese (1 aprile 1868, 2 dicembre 1918), pone la frase famosa sulle labbra di Cirano suggeritore di Cristiano, mentre l'amata Rossana ascolta estatica affacciata al balcone.

Il Cyrano, commissionato dal celebre attore del tempo Benoît-Constant Coquelin che ne vestì per primo i panni, andò per la prima volta in scena il 28 dicembre del 1897 al Théâtre de la Porte Saint-Martin di Parigi.

Grazie a quest'opera, Rostand (che nel 1892 aveva invece subito l'onta clamorosa della bocciatura del suo Le deus Pierrots da parte della Comédie-Française) venne insignito della Legion d'onore ed eletto membro dell'Académie française.

Quella citata è una fra le frasi d'amore più note al mondo. Piccola curiosità: nella versione originale in lingua francese, che potrete leggere di seguito, non si parla affatto di "apostrofi", ma di "un punto rosa che si mette sulla i del verbo aimer - amare".

"Un baiser, mais à tout prendre, qu'est-ce? Un serment fait d'un peu plus près, une promesse plus précise, un aveu qui veut se confirmer, un point rose qu'on met sur l'i du verbe aimer; c'est un secret qui prend la bouche pour oreille, un instant d'infini qui fait un bruit d'abeille, une communion ayant un goût de fleur, une façon d'un peu se respirer le coeur, et d'un peu se goûter, au bord des lèvres, l'âme!"



Commento personale

Insomma, caro Rostand, ci avrai pur messo cinque anni a scriverlo, con una scoppola de La Comédie sul groppone, ma se tutto questo è servito per consegnare il Cyrano de Bergerac come tua eredità all'umanità, beh, fammelo scrivere: ne è valsa la pena!

Buon San Valentino.

venerdì 13 febbraio 2015

Se non hanno più pane, che mangino brioche!

La frase famosa di oggi è da molti attribuita a Maria Antonietta d'Asburgo-Lorena, che l'avrebbe pronunciata riferendosi al popolo affamato, durante una rivolta dovuta alla mancanza di pane. Ricordo che Maria Antonietta è la regina "decollata" dalla ghigliottina durante la rivoluzione francese.

In realtà, la frase è sicuramente precedente ed attribuibile a Jean Jacques Rousseau (Confessioni, Libro VI), che la racconta in un aneddoto risalente al 1741, mentre la regina Maria Antonietta nasce nel 1755 ed arriva in Francia solo nel 1770.
L'uso comune d'attribuzione a Maria Antonetta è forse da ricercarsi nella volontà dei detrattori di identificare la principessa del brano di Rousseau con la regnante austriaca per delegittimarla agli occhi dell'opinione pubblica.

Altre fonti, invece, attribuiscono la frase alla principessa Vittoria Luisa, figlia di Luigi XV (che avrebbe suggerito al popolo di mangiare la crosta dei pasticci di carne): anche in questo caso, alla luce della testimonianza di Rousseau, l'attribuzione è anacronistica.

Ulteriori fonti, invece, ascrivono il riferimento di Rousseau a Maria Teresa d'Austria, infanta di Spagna e moglie di Luigi XIV (il Re Sole, per intenderci). Molto più probabilmente, Rousseau si inventò l'aneddoto di sana pianta.

Per altri, infine, l'espressione ha origine molto più remota: sarebbe stata pronunciata da un antico imperatore cinese il quale, di fronte alle sofferenze del suo popolo che pativa l'insufficienza del riso, avrebbe detto: «Perché non mangiano carne?».


Commento personale

Comunque la mettiate, sembra davvero che il potere non riesca a comprendere le condizioni di vita del popolo comune. Come chi, oggi, si lamenta di non arrivare a fine mese pur percependo stipendi con quattro zeri e oltre. Vi ricorda qualcuno? Consiglierei "Il principe ed il povero" di Twain.

giovedì 12 febbraio 2015

Vada a bordo cazzo!

Era la sera del 13 Gennaio 2012, e la Costa Concordia, una delle più importanti navi crociera della compagnia genovese, solcava i mari antistanti l'Isola del Giglio.

Una "consuetudine" strana, quella dell'inchino, fatta tante volte e vista tante volte anche da me, qui, nel mare di fronte casa mia. Quella sera, però, qualcosa andò storto. Alle 21:45:05, la Costa Concordia si incaglia sul fondale dopo essersi trovata un lato squarciato dall'urto contro degli scogli non emersi, e comincia ad adagiarsi lateralmente, dopo aver cominciato a riempirsi d'acqua dal compartimento 4 all'8 e dopo che motori e generatori secondari smettono di funzionare, gettando la nave in un completo black-out, ed i passeggeri nel più totale terrore.

Seguiranno minuti di indicibile caos. È in questo marasma che la Capitaneria di Porto di Livorno si mette in contatto con la Concordia, dopo 27 minuti dall'urto ed avvisata da un parente di un passeggero (che riferiva di cedimento del soffitto del ristorante ed ordine d'indossare i giubbotti salvagente) per tramite dei Carabinieri di Prato. Sono le 22:12, ma è solo alle 22:25 che Schettino riferisce della falla e dell'allagamento alla Capitaneria di Livorno, chiedendo l'invio di rimorchiatori (richiesta poi reiterata alle 22.40, parlando di necessità urgente di rimorchiatori) e sostenendo che tutti i passeggeri avessero indossato i giubbotti salvagente (mentre in realtà non era ancora stata data l'emergenza né date istruzioni in tale senso o fatto alcun controllo).

Siamo alla catastrofe. Ed è qui che prende il comando il Capitano di Fregata Gregorio De Falco, il quale già alle 22:28 ha disposto il dirottamento sul posto di tutte le navi presenti in zona, intimando, all'1.46 del 14 Gennaio, il famoso "vada a bordo cazzo!" ad uno Schettino che se la stava dando a gambe.

Una dettagliata cronaca è disponibile su Wikipedia.

Ci saranno 32 morti, seguiti da una 33a vittima l'1 Febbraio 2014, durante i lavori sul relitto, quando perse la vita anche un sommozzatore del team di recupero e rimozione.


Commento personale

Il caso divenne famoso e percorse tutto il globo. Si trovarono di fronte l'eroe comune Gregorio De Falco ed il pusillanime Francesco Schettino, personaggio che avremmo fatto volentieri a meno di far uscire da uno dei film macchiettistici di Alberto Sordi. Come andò a finire la storia? Schettino, seppur indagato ed in attesa di giudizio, viene addirittura chiamato in cattedra accademica ad erudire gli astanti sulla «gestione del controllo del panico». De Falco, invece, viene rimosso dal servizio operativo e assegnato a mansioni amministrative. Come disse Zagrebelsky e riprese De Falco stesso, è "l'eterogenesi dei sì": camminiamo nella stessa direzione, ma ciascuno ha finalità differenti. Se questa è l'Italia...

mercoledì 11 febbraio 2015

Dimmi Gigi in che squadra sta Amalgama che lo compero!

Il Presidente Massimino
festeggia la promozione in Serie B
del Catania al termine della
stagione 1979-1980
Eccola qui, finalmente, una citazione sportiva.

Viene direttamente dal calcio, quello di una volta, quello in cui ogni squadra aveva ancora il suo giocatore storico che i tifosi amavano chiamare "bandiera" e che a tutt'oggi ci si porta nel cuore...

Viene dal profondo Sud, da quella Catania che, in poco più di un ventennio, visse l'altalena di promozioni e retrocessioni come in una mirabolante montagna russa, viaggiando dal paradiso della Serie A all'inferno dell'Eccellenza come su uno sfibrante otto volante.

Viene dal presidentissimo Angelo Massimino, ancora oggi ricordato e compianto più volte presidente del club calcistico etneo, uno burbero e autoritario, mal scimmiottato oggi dai vari Zamparini & C., uno di cui Pietro Anastasi disse: "Se n'è andato uno vero, uno che ha pagato, uno con la passione dentro. Altro che i dirigenti attuali, gente di plastica". 

Di Massimino è famosissima anche "A questo mondo c'è chi può e chi non può. Io può". Ma questa, è un'altra storia...


Commento personale

Devo dire che è stata dura, ma sono riuscito a ritrovare la versione originale della "citazione famosa", così come venne pronunciata da Massimino, in risposta al giornalista Gigi Prestinenza (maestro di Cannavò ai tempi de "La Sicilia") che gli faceva notare: «Presidente, adesso con tutti questi giocatori nuovi mancherà certamente amalgama...»

martedì 10 febbraio 2015

La moglie di Cesare deve essere al di sopra di ogni sospetto

Pompea ritratta nel
"Promptuarii Iconum Insigniorum"
del 1553
La frase è di Gaio Giulio Cesare, ed è davvero una storia che sa di soap opera.
La seconda moglie di Cesare e già figlia di Silla, Pompea Silla, aveva un amante, tale Publio Clodio Pulcro.

Cesare, all'epoca, era di là dal divenire dittatore di Roma, ma aveva già iniziato una sfavillante carriera. Due anni prima del "fattaccio" generatore dell'aforisma era stato nominato Pontifex Maximus (ovvero capo dei sacerdoti e controllore massimo del diritto romano) e poco tempo prima addirittura Praetor (magistrato romano dotato di potere pubblico di stampo militare e fautore dell'impostazione della causa in una controversia).

Ora, Pompea, non contenta di cotanto marito, si infatuò, ricambiata, di Clodio, rampollo della gens Claudia e collaboratore di Cicerone nell'accusa ai congiurati catilinari. Clodio, vuoi per una bravata, vuoi per uno smacco al "celebre cornuto" (nonchè avversario politico della gens Iulia), si intrufolò in casa di Cesare durante una festa riservata a sole donne, i Damia, riti in onore della Bona Dea. Colto sul fatto da un'ancella, Clodio riuscì a fuggire, ma ormai la frittata era fatta: quella notte fra il 4 e il 5 Dicembre del 68 a.C. passò alla storia; tutti a Roma lo vennero a sapere.

Cesare decise di divorziare dalla moglie ma si rifiutò di testimoniare contro Clodio al processo che ne seguì, adducendo come scusa la famosa frase in epigrafe... Cicerone, per contro, non fu tanto accomodante quanto Cesare, e testimoniò vigorosamente contro Clodio. Questi, però, fu assolto, perchè il collegio giudicante venne corrotto e comprato da Marco Licinio Crasso, che insieme allo stesso Cesare e a Gneo Pompeo formerà il primo triumvirato. Ve l'avevo detto che era una soap opera!


Commento personale

Erroneamente, la frase viene citata spesso e volentieri come segno di integrità morale e di distinzione integerrima di una persona. In realtà, come si è potuto carpire dal racconto, non si tratta altro che di una grottesca storia di tradimenti in cui il potere (Cesare) difende se stesso e la sua immagine agli occhi dei sottoposti.

lunedì 9 febbraio 2015

Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce

La frase di oggi è di Blaise Pascal (Clermont-Ferrand, 19 giugno 1623 – Parigi, 19 agosto 1662), matematico, fisico, filosofo e teologo francese.
Famoso per i suoi studi sui fluidi e sul calcolo della probabilità, abbandonò matematica, fisica e scienze naturali in generali per concentrarsi su riflessioni filosofiche e religiose a partire dal 1654, dopo un incidente in cui rischiò la vita.

La frase è tratta dai "Pensieri" e continua con: "[...] lo si osserva in mille cose. Io sostengo che il cuore ama naturalmente l'Essere universale, e naturalmente se medesimo, secondo che si volge verso di lui o verso di sé; e che s'indurisce contro l'uno o contro l'altro per propria elezione. Voi avete respinto l'uno e conservato l'altro: amate forse voi stessi per ragione?".


Commento personale

Con i suoi scritti, in pena adesione giansenista, Pascal indica che, a suo avviso, l'essere umano raggiunge la Verità non solo con la ricerca logico-razionale, bensì anche attraverso l'introspezione "del cuore", il quale, però, non agisce per criteri irrazionali, bensì percorre precisi procedimenti appartenenti ad una forma di ragione che risulta "altra" rispetto alla ragione scientifica.
In piena adesione giansenista, il filosofo francese influenzò fortemente, fra gli altri, anche gli scritti letterari di Alessandro Manzoni.

Pascal pone, così, le basi per provare a conciliare la scienza (fondata su quello che lui chiama "spirito di geometria") e la fede (che si fonda sul cosiddetto "spirito di finezza"), ponendo i due campi complementari e necessari l'uno all'altro. Ci sarà riuscito?

Nella tensione di indicare l'uomo come essenzialmente corrotto e tendenzialmente operante il male, forse (ma non tanto) i giansenisti si sono scordati del libero arbitrio dell'uomo di fronte alla grazia divina, puntando verso una predestinazione alla salvezza per grazia. Evidentemente, di Sant'Agostino, hanno scordato che "chi ti ha creato senza di te, non ti giustifica senza di te: ha creato chi non sapeva, non giustifica chi non vuole" (Sermones 169, 11, 13.)

domenica 8 febbraio 2015

sabato 7 febbraio 2015

Con le baionette puoi farci pressoché di tutto, tranne che sedertici sopra!

Napoleone Bonaparte, nel dipinto
"Napoleone attraversa le Alpi"
di Jacques-Louis David
La frase celebre di oggi è presa dal libro "La guerra lampo" di Len Deighton, da questi attribuita a Napoleone Bonaparte (Ajaccio, 15 agosto 1769 – Isola di Sant'Elena, 5 maggio 1821). Per altri, invece, la frase è da attribuire al Cancelliere di Prussia Otto von Bismarck (Schönhausen, 1 aprile 1815 – Friedrichsruh, 30 luglio 1898).

In qualsivoglia dei casi, la citazione è emblematica: anche se si ha uno strumento potente, incredibilmente potente oserei parafrasare, non ci si può crogiolare con esso, se si vuol raggiungere la vittoria.


Commento personale

Fuor di parafrasi: date in mano ad uno stupido uno strumento grandioso, e ne farà incredibilmente un cattivissimo uso.

venerdì 6 febbraio 2015

Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità.

Joseph Goebbels
Questo aforisma è attribuito a Joseph Goebbels, gerarca nazista (29 ottobre 1897, 1 maggio 1945).
Il contenuto è altamente indicativo di come si possa svolgere la propaganda di un regime, dei suoi contenuti e delle sue forme. Goebbels, infatti, era il Ministro della Propaganda nazista fino al suicidio di Hitler, a seguito del quale divenne per qualche giorno Cancelliere del Terzo Reich, fino alla propria morte.

Le circostanze della morte di Goebbels, della moglie e dei loro sei figli sono a tutt'oggi non chiarite.
Una versione storica afferma che Goebbels e la moglie Magda abbiano avvelenato i figli col cianuro, dopo averli addormentati somministrando loro della morfina, grazie anche all'aiuto del dottor Ludwig Sumpfegger. Poi, il marito uccise prima la moglie per poi suicidarsi.
Un'altra versione asserisce che l'ormai Cancelliere Goebbels abbia dato disposizioni ad un attendente di campo di cremare lui e la moglie dopo averli uccisi con un colpo alla nuca ciascuno.

Di fatto, i corpi dei Goebbels vennero trovati carbonizzati dai russi, ed alcuna analisi medico-legale potè essere condotta.


Commento personale

Al di là dell'autore primo di questo aforisma, mi piace sempre darne citazione come uno degli elementi fondanti su cui si basa la propaganda stupida ed abietta, che oggi trova il suo compimento in molti post su Facebook. Il problema, in verità, non è la sussistenza delle bufale... il problema, in verità, non sta nemmeno nella sussistenza di Facebook... il problema, in verità, sta nella sussistenza della stupidità umana.