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Il perchè di questo blog
Navigando su Internet, nell'era dei Social Network, mi sono imbattuto più e più volte in una citazione di una frase famosa o di un aforisma. Mi sono sempre chiesto cosa ci sia dietro: da questa domanda, nasce questo blog.

mercoledì 23 novembre 2016

Guai ai vinti

Brenno e Furio Camillo
durante il sacco di Roma.
Illustrazione di Paul
Lehugeur da "Histoire de
France en cent tableaux", 1886
Attorno al 390 a.C. una tribú di Galli, i Senoni, partirono dall'odierna Senigallia alla volta dell'Etruria meridionale, per razziare e saccheggiare. Giunti che furono in quel di Chiusi, vinta una decisiva battaglia, si trovarono spalancata la via verso Roma.

Il richiamo dell'oro latino fu forte; l'Urbe non venne adeguatamente difesa e dovette capitolare: solo il Campidoglio non venne espugnato, grazie alle famosissime oche. Fu una tal disfatta che, se non fosse stato per il solo fatto che la spedizione dei Senoni aveva carattere di razzia e non di conquista, probabilmente la storia avrebbe preso un percorso diverso.

Nondimeno, ai Romani fu imposto un pesante tributo, ed in questo frangente si inserisce la narrazione che ne fa Tito Livio nel suo Ab Urbe condita libri CXLII. Lo storico latino, infatti, narra come ai Romani venne imposto il pagamento di un certo quantitativo d'oro tale da pareggiare il peso imposto dai Galli. Alle lamentele dei primi per i pesi truccati usati dai secondi, il capo di questi, Brenno, pose sul piatto la propria spada da pareggiare in oro, pronunciando la famosa frase "Vae victis" e rendendo ancora piú iniquo il tributo da versare. Livio continua tramandando come Marco Furio Camillo, venuto a conoscenza della richiesta di riscatto, tornò velocemente a Roma. Giunto alle bilance, vi gettò la propria spada a compensare i pesi dei barbari e affrontó de visu Brenno, minacciandolo: "Non auro, sed ferro, recuperanda est Patria" ("Non con l'oro si riscatta la Patria, ma con il ferro"). Su queste parole, i Romani si riorganizzarono sotto il comando di Furio Camillo, liberarono la propria città e costrinsero Brenno a rifugiarsi nel nord dell'Italia.


Commento personale

Sebbene sembri che l'episodio sia stato inventato da Livio per dare un tocco apologetico e leggendario alla sottomissione dei Galli da parte di Giulio Cesare, la frase "Guai ai vinti" è divenuta proverbiale in molte culture e viene più frequentemente utilizzata come amaro commento dinanzi ad una crudele sopraffazione o ad un beffardo accanimento di chi ha di fronte un avversario non più in grado di difendersi.

Nel 1947, in un discorso all'Assemblea Costituente, il filosofo Benedetto Croce si pronunciò contro la ratifica, da parte della Repubblica Italiana, del trattato di pace di Parigi con le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale, paragonando l'atteggiamento di queste ultime a quello del capo gallico.

sabato 10 ottobre 2015

Che epoca terribile quella in cui degli idioti governano dei ciechi


William Shakespeare nel ritratto
eseguito da Martin Droeshout
L'aforisma di oggi è duro, aspro, spietato se vogliamo.

Potrei lanciarmi nella solita, paternale manfrina sui "tempi moderni", la "società dell'oggi", la caducità dei costumi, le debolezze dell'individualismo dell'era moderna...

In un'ottica prettamente complottista, potrei far riferimento alla schiavitù moderna dettata dai "poteri forti", alle "fraternità" sovranazionali che governano i destini delle masse, alle brame dei pochi ai piedi delle quali vanno sacrificate le esistenze dei molti...

Non è lo scopo di questo pezzo, che riprende l'aforisma del famoso drammaturgo inglese William Shakespeare; forse perchè tutto questo non era nemmeno il fine di Shakespeare stesso.
A mio avviso, il vero, grande obiettivo di Shakespeare era un altro, metaforicamente parlando: aprire gli occhi ai ciechi perchè essi vedano coi propri occhi, e non con gli occhi altrui. Ancora oggi, questo dovrebbe essere il compito supremo degli uomini liberi di cultura, qualunque ruolo essi rivestano nella società.

sabato 18 luglio 2015

Attento a ciò che desideri, perché potresti ottenerlo

L'aforisma di oggi è attribuito ad Oscar Wilde, scrittore, poeta, drammaturgo, giornalista e saggista irlandese. In realtà, la versione originaria è: "Ci sono due grandi tragedie nella vita. La prima è desiderare ciò che non si può avere...la seconda è ottenerla".

Ripreso dallo scrittore e sceneggiatore statunitense Stephen King nella forma "Attento a cosa chiedi quando preghi perché potresti ottenerlo" nonchè citato nel film "Il corvo" (d'altra parte, si badi bene, è un modo di dire frequentemente usato negli USA), l'aforisma ha, nell'immaginario comune, un duplice significato.

Per un verso, esso può descrivere il desiderio del raggiungimento di una meta difficilmente perseguibile, permettendo la coesistenza della continua tensione del miglioramento di se stessi con il fascino della sfida perenne con se stessi. Accade così che non sia tanto soddisfacente il raggiungimento dei propri desiderata quanto lo è il cosiddetto "percorso" che conduce ad essi. La visione che ne discende è quella di una creatura, quella umana, sempre tesa alla positiva perfettibilità di se stessa.

L'altra faccia della medaglia è, forse, quella cui Wilde faceva riferimento. È proprio questa imperfezione ontologica dell'uomo che lo rende incontentabile, facendolo vivere nella continua e mai saziabile ricerca dell'emozione che nasce dall'attesa che si verifichi ciò che desidera. Una volta che essa termina, già ci si rivolge altrove, ad un altro obiettivo, ad una nuova attesa... l'oggetto del desiderio coronato non è riuscito a colmare quella infelicità interiore dettata da uno stato di imperfezione in nuce, un'assenza spirituale piuttosto che materiale.

Il duplice senso connesso all'aforisma è, quindi, dovuto a questa peculiare caratteristica dell'essere umano che lo rende simile ad un Giano bifronte: se da un lato esso è un essere proteso alla perfettibilità, di converso ha piena coscienza di non poter mai raggiungere, in essenza e con le sole proprie forze, la perfezione desiderata.

Bene tratta Epicuro questa bifrontalità dell'essere umano, quando nel III secolo a.C. scriveva: "Per ogni desiderio ci si deve porre questa domanda: che cosa accadrà se il desiderio sarà esaudito, e che cosa se non lo sarà?"


Commento personale

Nell'era tecnologica dei social network, permettetemi di calare pragmaticamente l'aforisma in una fattispecie letteraria: quella della vicenda della tinteggiatura dello steccato narrata da Mark Twain ne "Le Avventure di Tom Sawyer". Da essa, dal comportamento di Tom e del bambino canzonante, possiamo verificare come sia sempre più invalso l'uso di desiderare a priori ciò che non si conosce, per verificare a posteriori quanto dannoso possa essere l'ottenimento di ciò che si desidera.

martedì 7 aprile 2015

Vanità delle vanità, tutto è vanità

Vanitas, dipinto di Léon Perrault
Ai tempi di "Sic transit gloria mundi" avevo accennato a questo ulteriore aforisma latino.

La sua versione originale è Vanitas vanitatum et omnia vanitas (in italiano, "vanità delle vanità, tutto è vanità"), ed è presa dalla traduzione latina del Qohelet (o Ecclesiaste, 1, 2; 12, 8), un libro sapienziale dell'Antico Testamento.

La costruzione ridondante «vanitas vanitatum» è, in realtà, un calco linguistico dall'ebraico havel havalim, con valore superlativo.
Con questa locuzione si apre e si chiude il lungo discorso di Qohelet, che occupa i dodici capitoli del libro omonimo. Qohelet, o Ecclesiaste, uomo saggio e maestro, dopo aver esplorato ogni aspetto della vita materiale, giunge alla conclusione (già preannunciata all'inizio del testo) che tutto è vanità. Il che non deve impedire all'uomo di riconoscere in Dio il creatore e di osservare i suoi comandamenti, come conclude il breve paragrafo finale ad opera di un commentatore posteriore.

Nei secoli, però, non tutti i lettori hanno condiviso le conclusioni concilianti del commentatore, e il Qohelet è diventato il simbolo di una più radicale negazione del valore di ogni cosa. A reinterpretare l'Ecclesiaste in senso "nichilista" è, per esempio, Giacomo Leopardi, che nel canto A se stesso traduce il Vanitas vanitatum con L'infinita vanità del tutto.

L'Imitazione di Cristo, un testo letterario cattolico particolarmente noto e pubblicato per la prima volta nel 1418, riprende nella sua introduzione questa massima biblica, aggiungendovi la frase: «praeter amare Deum et illi soli servire» ("eccetto amare Dio e servire Lui solo").

Questo tema è presente anche nell'Orlando Furioso. Infatti nel canto 34 l'Ariosto racconta l'avventura del paladino Astolfo che con il suo Ippogrifo ripete le tappe del viaggio iniziatico: scende negli inferi, ne esce e arriva fin sulla Luna accompagnato da San Giovanni Evangelista, per recuperare il senno del cugino Orlando, pazzo per amore di Angelica. La luna è lo specchio della Terra, infatti qui c'è tutto quello che sul nostro pianeta si è perso o per colpa del tempo o per Fortuna (sorte): "ciò che in somma qua giù perdesti mai, là su salendo ritrovar potrai" (XXXIV, 70.75). Vi sono la fama, le preghiere e i voti a Dio, le lacrime e i sospiri degli amanti, il tempo perso al gioco, l'ozio e i progetti vani che non vengono mai messi in pratica, i vani desideri, le adulazioni, i versi composti in lode dei signori, la stessa donazione di Costantino. Solo pazzia non si trova sulla Luna, perché è tutta sulla Terra, gli uomini son tutti pazzi e non vi è nessuno di totalmente savio. Tutto ciò rappresentano i vani desideri degli uomini e soprattutto di quelli di corte che Ariosto conosce così bene. Desideri vani in cui gli uomini si nascondono ma che non trovano mai e come Orlando poi diventano pazzi, perché non riescono a ottenerli dato che sono finiti proprio lassù, sulla Luna.

mercoledì 1 aprile 2015

La speranza è l'ultima a morire

L'Espérance, scultura di Jacques Du Brœucq.
Nell'iconografia cristiana, la speranza è
simboleggiata dall'àncora.
Quante volte abbiamo sentito o ripetuto questo detto popolare?

La sua origine non è ben nota. Sappiamo che i nostri antenati latini solevano affermare che "la speranza è l'ultima dea". Ed è forse da qui che l'aforisma odierno prende spunto.

I latini usavano la frase "Spes ultima dea" per significare che la speranza è l'ultima dea che siede al capezzale del morente, con riferimento al mito greco della dea Speranza che resta tra gli uomini a consolarli, anche quando tutti gli altri dèi abbandonano la terra per l'Olimpo. Viene ripresa da Foscolo nei Sepolcri: «[...] Anche la speme, / ultima dea, fugge i sepolcri».

Secondo altre fonti, l'aforisma fa riferimento al mito greco del vaso di Pandora. Esso, secondo la mitologia, contiene tutti i mali del mondo. Venne donato da Zeus a Pandora, con la precisa indicazione che non doveva essere aperto. Pandora, però, a causa della sua smodata curiosità, disubbidì alle indicazioni del padre degli dei dell'Olimpo. Liberò, così, tutti i mali del mondo. Sul fondo del vaso rimase soltanto la speranza (Elpis), che non fece in tempo ad uscire prima che il vaso venisse richiuso. Dopo l'apertura del vaso il mondo divenne un luogo desolato ed inospitale finché Pandora lo aprì nuovamente per far uscire anche l'ultima, la speranza, che sarà anche poi l'ultima a lasciare gli uomini.

I cugini francesi d'oltralpe rendono l'aforisma come "on vive que avec l'espoir" (più o meno "non si vive se non con la speranza") o "L'espoir fait vivre" ("la speranza fa vivere"): forse rendono meglio il senso "speranzoso" dell'aforisma.

martedì 24 marzo 2015

Sic transit gloria mundi

Ritorno con una frase latina, che resa in italiano fa più o meno "Così passa la gloria del mondo".

Questa è una frase che, secondo il rito tradizionale, il cerimoniere ripete tre volte davanti al pontefice neoeletto, mentre fa bruciare un batuffolo di stoppa in cima a una canna d'argento. Oggi questo rito è abolito.

La frase (anche nella forma abbreviata sic transit) resta nel linguaggio comune e viene pronunciata, in occasioni meno solenni, e talvolta in tono scherzoso, con riferimento alla caducità delle cose umane.

Una forma diversa, ma che nel linguaggio odierno ha più o meno il medesimo significato, sta nella locuzione Vanitas vanitatum et omnia vanitas (in italiano, "vanità delle vanità, tutto è vanità"), tratta dalla versione in latino del Qohelet (o Ecclesiaste, 1, 2; 12, 8), un libro sapienziale dell'Antico Testamento. Ma questa, è un'altra storia...

mercoledì 18 marzo 2015

L’ultimo passo della ragione è riconoscere che c’è un’infinità di cose che la superano

Ancora una volta, un aforisma di Blaise Pascal (Clermont-Ferrand, 19 giugno 1623 – Parigi, 19 agosto 1662). Stavolta, la "colpa" di questo mio scritto è da attribuire ad un mio compaesano, il Prof. Giuseppe (detto Pino) Barbàra, che include la frase famosa di oggi in un articolo del suo blog, oltre che in un post sul suo profilo Facebook.

Un articolo molto interessante, quello del Prof. Barbàra, di cui ne consiglio davvero la lettura.

Ma ritorniamo al nostro buon Pascal, di cui già avevamo commentato l'aforisma "Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce". L'aforisma di oggi insiste nel solco della tesi pascaliana delle "ragioni del cuore", innestata sulla dottrina agostiniana che riporta la verità all’interno dell'anima umana, in interiore nomine - in questo senso la "reminiscenza" platonica si sarebbe “interiorizzata” -, valorizzando il ruolo dell'intuizione ed addirittura prefigurando, con il suo "Se mi inganno, sono" [De civ. Dei, XI, 26], l'argomento del cogito cartesiano.

Con le parole di oggi di Pascal, è chiaro come il filosofo francese indichi che il Credere non sottintenda la rinuncia alla ragione. L'ammissione "agostiniana" di incapacità di comprendere "il tutto", che Pascal fa evidentemente sua, non corrisponde però ad una totale rinuncia, bensì alla presa di coscienza della continua ed incessante necessità di cercare e ricercare per "scoprire", "svelare", comprendere la Verità sull'uomo e su Dio!

Questo atteggiamento di umiltà ed al tempo stesso di insaziabilità di conoscenza è, secondo Pascal, la condizione positiva sia per la ricerca fisico-scientifica che per quella filosofica e teologica. Ecco che, quindi, la Fede dà il giusto indirizzo alla ragione, mentre la ragione consolida la fede permettendo di traslare da sentimento a presa di coscienza e libero assenso alla rivelazione, la quale però rimane pur sempre non pienamente comprensibile in quanto l’Eterno, il Totalmente Altro, trascende il nostro stesso essere limitato (nel tempo, nello spazio, nell'intelletto).