Brenno e Furio Camillo durante il sacco di Roma. Illustrazione di Paul Lehugeur da "Histoire de France en cent tableaux", 1886 |
Il richiamo dell'oro latino fu forte; l'Urbe non venne adeguatamente difesa e dovette capitolare: solo il Campidoglio non venne espugnato, grazie alle famosissime oche. Fu una tal disfatta che, se non fosse stato per il solo fatto che la spedizione dei Senoni aveva carattere di razzia e non di conquista, probabilmente la storia avrebbe preso un percorso diverso.
Nondimeno, ai Romani fu imposto un pesante tributo, ed in questo frangente si inserisce la narrazione che ne fa Tito Livio nel suo Ab Urbe condita libri CXLII. Lo storico latino, infatti, narra come ai Romani venne imposto il pagamento di un certo quantitativo d'oro tale da pareggiare il peso imposto dai Galli. Alle lamentele dei primi per i pesi truccati usati dai secondi, il capo di questi, Brenno, pose sul piatto la propria spada da pareggiare in oro, pronunciando la famosa frase "Vae victis" e rendendo ancora piú iniquo il tributo da versare. Livio continua tramandando come Marco Furio Camillo, venuto a conoscenza della richiesta di riscatto, tornò velocemente a Roma. Giunto alle bilance, vi gettò la propria spada a compensare i pesi dei barbari e affrontó de visu Brenno, minacciandolo: "Non auro, sed ferro, recuperanda est Patria" ("Non con l'oro si riscatta la Patria, ma con il ferro"). Su queste parole, i Romani si riorganizzarono sotto il comando di Furio Camillo, liberarono la propria città e costrinsero Brenno a rifugiarsi nel nord dell'Italia.
Commento personale
Sebbene sembri che l'episodio sia stato inventato da Livio per dare un tocco apologetico e leggendario alla sottomissione dei Galli da parte di Giulio Cesare, la frase "Guai ai vinti" è divenuta proverbiale in molte culture e viene più frequentemente utilizzata come amaro commento dinanzi ad una crudele sopraffazione o ad un beffardo accanimento di chi ha di fronte un avversario non più in grado di difendersi.Nel 1947, in un discorso all'Assemblea Costituente, il filosofo Benedetto Croce si pronunciò contro la ratifica, da parte della Repubblica Italiana, del trattato di pace di Parigi con le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale, paragonando l'atteggiamento di queste ultime a quello del capo gallico.